giovedì 19 aprile 2012

Il giorno in cui comprai "Lettere a Milena" di Franz Kafka il cielo era grigio e non avevo un ombrello

Il giorno in cui comprai "Lettere a Milena" di Franz Kafka il cielo era grigio e non avevo un ombrello. Un cappotto beige comprato al mercatino dell'usato, un paio di leggins blu e delle Superga che avevano dimenticato il loro colore originale da parecchi anni. Avevo i capelli raccolti e le lenti a contatto. Non c'era sole ma avevo deciso che avrei rimesso i miei rayban Wayfarer. Avevo bisogno di avere più carisma e sintomatico mistero o solo la necessità di andare altrove. Il mio portafoglio conteneva solo una banconota da 10 euro. Prezzo ci copertina: 9,50. Tornai con una monetina da 50 centesimi e senza timbrare il biglietto dell'autobus.
La sera prima avevo pensato alla sua partenza, alla mia partenza, a tutte le partenze. Volevo immergermi nella distanza, perdermici. Allo stesso tempo volevo uscirne, con le parole. Lette e scritte. Ecco che allora mi venne in mente questo libro e mi dissi che era necessario acquistarlo Un romanzo epistolare, di amore costruito sulla carta, quella delle lettere. Me ne venne in mente uno, costruito su una tastiera, mediato da uno schermo, da una terza lingua che non è dei due innamorati e che trova il suo inizio e la sua conclusionee nel pulsante invio.



Copyright Roberta Silvia Pellegrini









martedì 17 aprile 2012

Trovami un modo semplice per uscirne

Ogni parola accompagnata da una nota sprigiona per intero il suo significato.
Se devo scegliere una canzone per questi miei vent'anni, scelgo lei. Mi tocca talmente in profondità che non posso fare a meno di rimanere scossa all'ascolto dell'ultima frase interrogativa "Come puoi vivere a testa in giù?".
La urlavo a pochi metri dal palco, tenendo nella mano un fazzoletto di carta pieno di lacrime.







Non cresci più, a tratti è normale,
Non si arrende più, il mio cuore
Cosa ti resta?
Il folle ride, penso a lei
Accorgersi di vivere nell’estasi
Cose che accadono qui
Il paradiso, è lei e non ho più rocce leggere ormai
My mind
Come puoi vivere a testa in giù
Come puoi vivere a testa in giù
Veglia in un sogno
Il paradiso è lei e non c’è più luce, per guardarci ormai
Cieca, il buio sole disinfesta
Gli alberi cadono al suolo
Riuscirò, se mi tiri giù, non riuscirò
Non respiri più, non riuscirò
Non riuscirò…
  
Come puoi vivere a testa in giù?

venerdì 6 aprile 2012

Avere 25 anni.

Hai voglia di andartene. Fissi la valigia di fianco al letto, la vorresti riempire con tutto quello che hai e andartene. 

Questa è la mia vita. Questi i tuoi averi. Puoi fare l'esatto inventario del tuo magro capitale, il preciso bilancio del tuo primo quarto di secolo.
Hai 25 anni e 29 denti, migliaia di vestiti e altrettanti accessori ma mai niente da metterti, qualche libro che non leggi più, qualche disco che non ascolti più. Una laurea magistrale che non è fatta per il mondo del lavoro e che  ti fa vivere ancora con la misera paghetta settimanale dei tuoi. Un amore lontano che non sai nemmeno come chiamare. Hai 25 anni e non sai ancora distinguare l'ideale dal reale, il vero dal bello, le parole dalle cose. Cerchi ancora qualuno che legga Proust prima di addormentarsi, che trovi nelle parole di alcune canzoni la stessa profondità che ci trovi tu, che ti proponda un'analisi intellettuale di qualsiasi pellicola si decida di vedere in streaming.
Credi ancora nei sogni, quelli degli altri. I tuoi ormai li vedi sul pavimento, in mille frammenti che a piedi nudi calpesti e che ti fanno male.


Non hai voglia di ricordarti di nient'altro, nè della famiglia, nè dei tuoi studi, nè dei tuoi amori, nè dei tuoi amici, nè delle tue vacanze, nè dei tuoi progetti. Hai viaggiato e dei viaggi non ti resta nulla. Sei seduto e vuoi soltanto aspettare, aspettare solamente finchè non ci sia più niente da aspettare: che venga la notte, che suonino le ore, che i giorni fuggano, che sfumino i ricordi.

lunedì 13 febbraio 2012

La notte del 14 Febbraio

Nella notte che mi porta al 14 Febbraio voglio sognare. Non voglio pensare, voglio entrare nel mio confuso regno del Sogno, dove ogni cosa non è ciò che appare, dove a prendere vita e ad essere protagonoste sono le idee. A volte vacilla il mio confine tra sogno e realtà: la dimensione del sogno prende il possesso della vita reale e allora non voglio mai andare a dormire. Stendermi, chiudere gli occhi. No, non posso abbandonarmi al sonno se il sonno non è sogno. Forse non c'è nessuna differenza tra le due cose o forse, ad oggi, non posso ancora distinguerli.

E allora mi viene in mente Queneau e i suoi fiori blu.
"Il y a des rêves qui se déroulent comme des incidents sans importance, de la vie éveillée on ne retiendrait pas des choses comme ça et cependant ils intéressent lorsqu'on les saisit au matin se poussant en désordre contre la porte des paupières."

mercoledì 8 febbraio 2012

Full stops and exclamation marks

I ritorni sono strani, spaesanti. Con nostalgia si ripensa a quello che è stato e che non sarà più. Sì, perchè potrai anche tornare nello stesso posto ma le situazioni saranno diverse tanto che non sarà mai di nuovo quello che era. Le condizioni cambieranno, le persone e i posti sembreranno irriconoscibili e non si proveranno e penseranno più le stesse cose. Crescita e straniamento in un rapporto di implicazione reciproca. Febbraio ha preso il posto di settembre nel ruolo di "mese dei bilanci".
Ho ritrovato le cose che ho lasciato? Ho ritrovato tracce che mi permettono di riconoscere quello che ho lasciato: vestiti che non potevo mettere, libri che non potevo leggere, cibo che non potevo permettermi di comprare. Ma l'immagine totale che ne deriva non è assolutamente paragonabile al negativo di quello che era il "prima". Meglio? Peggio? No, nessun giudizio di valore, solo quella strana sensazione che qualcosa è cambiato. Come tutte le sensazioni va presa così, come viene nell'esatto momento in cui la si prova. Le decontestualizzazioni e i paragoni non portano a niente. Troppi punti di domanda. Meglio sostituire tutto con punti fermi o esclamtivi. Una puteggiatura di cui ho piùbisogno.

La roux - In for the kill

Ripasso lo smalto rosso sulle mie unghi, ascolto La Roux e penso a cosa metterò stasera per uscire. 


Rosso, non Chanel ovviamente.


giovedì 2 febbraio 2012

"Le cose non smettono più di lasciarci"


Penultimo giorno. Sedersi per terra, a gambe incrociate. Il pavimento è freddo perchè ho scelta la posizione vicina alla porta che è l'unica che mi permette di vedere per intero la stanza. Mi guardo intorno e tutto quello che è stata la mia Berlino è ordinatamente riposto e impacchettato. Mi viene in mente Vinicio Capossella e qualche riga del suo libro.


Le cose non la smettono più di lasciarti. Forse lo fanno perché sanno che devi procedere leggero, cercano di farti un favore. Quando hanno fatto il loro, non hanno voglia di finirci al deposito, preferiscono salutarti sul ciglio della strada, di modo che tu possa comtinuare ancora. Ci sparisce tuto di dosso… camicie, mutande perfino, taccuini, scarpe, anelli, tutto quello cui non teniamo abbastanza ci abbandona spogliandoci, lasciandoci spogli anche di ricordi a non stare attenti, fino a che si diventa come quelle mongolfiere in avaria che bisogna buttare giù la roba dal cesto perchè possano alzarsi ancora.

Non avrei saputo descrivere meglio la sensazione che ho nel lasciare questo posto, questi muri bianchi ormai freddi, questi mobili spogli, questo letto che non ho più voglia di rassettare, le piante che ho sempre dimenticato di innaffiare. I muri sussurrano nomi amici e ogni angolo mi ricorda qualche momenti di compagnia o di solitutine. Sana solitudine che fa leggere, non piangere. Qualche parole di tedesco che si ricorda con nostalgia insieme a quella voglia iniziale che si ha di imparare una lingua. Flyer di club che richiamano alla mente notti insonni seguite da febbre, sconsolazione, delusione ma alternatae a risate, sperimentazioni, brindis fatti con qualsiasi tipo di bevanda, pane tostato con burro, ragazze ubriache con solo due boccette di alcool da borsetta.

Era una prova, era stata la voglia di guardarmi ancora una volta allo specchio a spingermi a volere continuare. Specchio. La mia ossessione. Col senno di poi ho capito che questi tre mesi sono stati anche un modo per guardare negli occhi degli altri. Ho deciso. Porterò con me tutti gli sguardi che hanno fatto parte di questi tre mesi, finchè anche loro non mi lasceranno perchè è così che capita: le cose non smettono mai di lasciarci.

mercoledì 1 febbraio 2012

Paris, à bout de souffle

Montmartre, il mondo che è fuori
Un quadro di Renoir, un film di Godard, il "rouge" di Coco Chanel, le pagine di un libro di Proust che non ho mai finito di leggere. Questo insieme di immagini era quello che tornava alla mente alla parola "Parigi". Niente di reale, nessun rapporto con qualche oggetto o qualche sensazione. Solo un puro semplice costrutto basato su retaggi culturali. Cosa ne resta di tutto ciò dopo il rapporto con la vera città? Molto. A partire dai piccoli caffè con tavolini tondi, pieni di uomini e donne che confondono nelle parole passato, presente e futuro. Tavolini ai quali Jean Seberg con una maglia a righe parlava con Michel Piccoli che fumava la millesima sigaretta di "Fino all'ultimo respiro" o dove Xavier si lasciava da Martine (alias Audrey Toatou) al ritorno dal suo Erasmus, riaprendo memorie vecchie e nuove. Strade strette, edifici che puntano verso il cielo, disegnando la pianta di una città fatta di persone, edifici e profumi. Quelli dei colori ad olio di una vecchia tela di stampo impressionista dipinta da un anziano in giacca grigia, di fronte a un piccolo Bistrò con la porta rossa a Montmartre. Un cielo che diventa buio per lasciarsi illuminare dal faro al di sopra della Tour Eiffel che, al suo passaggio, spegne momentaneamente le stelle.

Souvenir.

Capita che ci si innamori di un luogo, capita che ci si innamori di una persona. O forse capita solo che ci si riempia il cuore di belle emozioni e che le si chiusa in un bagaglio a mano arancione senza limiti di peso da trascinare nelle metropolitane piene affollate fino all'aereoporto. Le mani fredde, il naso freddo, alzarsi in punta di piedi per guardare negli occhi, i suoi. Una carezza e un "ci vediamo presto", pensato in italiano o in francese e detto dal suono impercettibile di passi che si allontanano nel silenzio delle braccia che si lasciano.

Una conclusione che porta con sé le note di una canzone "Lascio che le cose mi portino altrove, non importa dove. Non importa dove."


Door in Paris